lunedì 5 agosto 2013

IL PIACERE SESSUALE A PORTATA DI CLIC


Dilaga il piacere a portata di clic, almeno stando alle visite registrate dai siti specializzati nel settore. 

«Il web è un facilitatore di incontri: non stupisce dunque il dilagare di chat e porno online, ma anche dei siti di dating, dove l'obiettivo degli utenti, spesso donne, è quello di una relazione romantica. Il problema arriva quando la passione per cybersex (chat erotiche) o cyberporn (video porno online) diventa patologica, si trasforma in un pensiero intrusivo che domina la giornata, influisce sulle relazioni reali e incide pesantemente sulla produttività sul lavoro».

A descrivere all'Adnkronos Salute il mondo di 'quelli che lo fanno via web', un piccolo esercito come testimonia anche il successo di YouPorn, è Federico Tonioni, direttore del Centro per le psicopatologie da web del Policlinico Gemelli di Roma, autore del manuale 'Psicopatologia web mediata, dipendenza da internet e nuovi fenomeni dissociativì (Springer). 

«Prima di tutto - premette - bisogna dire che il sesso via web non è sempre patologico, può essere un modo come un altro per declinare il proprio desiderio, la propria fantasia, concedersi avventure spesso solo virtuali e sognare un pò. Il fatto di non arrivare mai a un incontro dal vivo consente di coltivare l'illusione, ma a volte le cose sono differenti: le emozioni del sesso virtuale diventano una 'drogà che porta a maratone online. La compulsività, l'ossessione e l'assenza di uno scambio vero e proprio con l'altro rappresentano campanelli d'allarme. Nella testa di chi è stregato dal cybersex il pensiero della connessione è dominante, eccita fin dalla mattina, anche se poi magari si naviga solo un'oretta».

Spesso accade che si arrivi a saltare la pausa pranzo per concedersi un momento hot in ufficio all'insaputa dei colleghi, «ecco perchè sono convinto che si sottovaluti il peso di questo fenomeno sulla produttività: se lavori tutto il giorno con quel pensiero fisso, o fai pause online per indulgere al piacere, certo non potrai dare il massimo».

Ma il sesso virtuale non è uguale per tutti. «Le donne preferiscono le chat e i siti di dating al porno». Alla fine per le cybernaute il retropensiero è sempre quello del 'principe azzurro', magari virtuale. «Più spesso degli uomini le donne puntano a una relazione, anche solo sul piano virtuale». Discorso a parte per i giovanissimi, spiega l'esperto che nel suo ambulatorio ha avuto tante richieste di aiuto dai 'webdipendenti', visitando più di 300 soggetti di cui circa il 20% sopra i 30-35 anni, stregati da gioco d'azzardo online e siti per adulti.

«Il resto dei nostri pazienti, circa l'80%, sono stati proprio i ragazzi dai 12 ai 25 anni, fruitori di chat, social network e giochi di ruolo». Ebbene, «nei giovani la relazione web mediata può portare a una dissociazione del rapporto mente-corpo. In pratica - spiega - nel cybersex manca la fase della formazione: il sesso via web mette al riparo da emozioni, sensazioni ma anche dai problemi di quello reale. Ci si spoglia e si fa texting mandando immagini hard per avere ricariche, ma poi dal vivo si è in imbarazzo perchè non si tratta di esperienze reali. Ecco che il pericolo è quello di un blocco, una timidezza estrema con gli altri in carne ed ossa», che porta poi a una nuova fuga liberatoria sul web.



domenica 2 giugno 2013

UN AVATAR CURERA' LA SCHIZOFRENIA

La schizofrenia si curerà attraverso un avatar. E’ quanto emerge da un’indagine condotta da un gruppo di ricercatori dell’University College of London. La ricerca, su 16 pazienti schizofrenici, ha testato una nuova tecnica: l’avatar therapy. Come funziona? Coloro che soffrono di questo particolare disturbo mentale avranno finalmente davanti il persecutore immaginario e potranno parlarci. In un certo senso, le loro paure diventeranno realtà. Il terapista, poi, potrà intervenire proprio attraverso questo personaggio, incoraggiandoli a opporsi alle voci che spesso suggeriscono di provocare danni ai familiari o a loro stessi. Pubblicata sul British Journal of Psychiatry, l’analisi ha dimostrato che la paura di essere perseguitati, se trasferita su un altro soggetto, favorirebbe il controllo dei comportamenti degli schizofrenici, effetto che si ottiene raramente attraverso l’assunzione di farmaci psichiatrici.

UN TEST PER SCOPRIRE LA DEPRESSIONE POST-PARTUM

Colpisce molte donne, dopo la gravidanza, con un disturbo dell'umore che si manifesta nelle prime settimane successive al parto e poi si trasforma in una vera e propria depressione, che può portare a compiere gesti estremi, anche sui propri stessi figli. Un disturbo che però ora potrebbe essere diagnosticato, con un semplice esame del sangue. Grazie ad una ricerca condotta da Zachary Kaminsky , psichiatra della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, si è infatti scoperto che la depressione post-partum è correlata alla presenza di due geni del DNA, indicatori del rischio di questa patologia.
Sottoponendo la donna ad un semplice prelievo del sangue e successivo test, dunque, si potrebbe verificare la presenza o meno di questi geni, in modo da intervenire preventivamente sui soggetti a rischio. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Molecular Psychiatry , l'attendibilità del test è pari all'85%. In oltre 8 donne su 10 sottoposte allo studio e risultate "propense" ad andare incontro ad una depressione dopo la gravidanza, è stata infatti riscontrata la presenza dei geni TT9B e HP1BP3, entrambi importanti per la loro influenza sul corretto funzionamento dell'ipotalamo, ovvero una struttura del sistema nervoso centrale dove risiedono numerosi nuclei che attivano, controllano e integrano l'attività endocrina e alcune funzioni fondamentali come il sonno, l'assunzione del cibo, il bilancio idro-salino e la termoregolazione.
Tra i sintoni della depressione post-partum ci sono proprio crisi di pianto e cambi di umore, irritabilità generale, ma anche perdita di appetito o sonno (o al contrario l'incapacità di stare svegli), perdita di interesse nei confronti delle attività quotidiane e del neonato. Fino ad oggi questo disturbo è stato curato tramite la somministrazione di farmaci anti-depressivi, con particolare attenzione, però, alle limitazioni che questi comportano sulla possibilità di allattare. Fondamentale anche e soprattutto il supporto psicologico alle neo-mamme, che in alcuni casi può limitarsi alla vicinanza da parte di un familiare, mentre in altri necessità dell'intervento di uno specialista, con una vera e propria psicoterapia.

Quanto all'incidenza della depressione, secondo recenti stime il 10-15% delle donne ne è a rischio, mentre durante e dopo una gravidanza questa percentuale aumenta fino a 7 volte tanto. Nelle donne con precedenti diagnosi di disturbi dell'umore, il rischio che possa insorgere la depressione post-partum viene indicato nel 35%, mentre in chi non ha mai sofferto di disturbi analoghi in precedenza, si attesta al 18%. La possibilità di scoprire il rischio di andare incontro a questa patologia, tramite un test del sangue, potrebbe ridurre sensibilmente questi numeri. 

PER LA DEPRESSIONE SONO EFFICACI TUTTI I TIPI DI PSICOTERAPIA

(AGI) - Londra, 30 mag. - Tutte le tipologie di psicoterapia risultano efficaci nel trattamento della depressione senza farmaci, secondo un nuovo studio internazionale coordinato dall'Universita' di Berna che ha analizzato i dati di oltre quindicimila pazienti che si sono sottoposti a sedute con sette differenti approcci psicologici: psicoterapia interpersonale, attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia di problem solving, terapia psicodinamica, training di competenze sociali e consulenza di supporto. Dai risultati e' emerso che tutte e sette le terapie hanno prodotto ottimi risultati nella riduzione dei sintomi della depressione senza differenze significative tra i metodi. La ricerca "Comparative Efficacy of Seven Psychotherapeutic Interventions for Patients with Depression: A Network Meta-Analysis" e' stata condotta da Jurgen Barth e pubblicata sulla rivista Plos Medicine.

IL NOSTRO CERVELLO PRODUCE DA SOLO L'ANSIOLITICO

Il nostro cervello si produce il "valium" da solo. La scoperta, resa nota sulla rivista Neuron, si deve a ricercatori della Stanford University School of Medicine in California diretti da John Huguenard che hanno scoperto che il cervello autoproduce una piccola proteina con effetti calmanti e analogo meccanismo d'azione degli ansiolitici, le benzodiazepine.
Si tratta della proteina chiamata 'DBI' e potrebbe fornire la chiave per nuovi farmaci anti-ansia e antiepilessia. Le benzodiazepine, farmaci anti-ansia e contro l'insonnia che però danno dipendenza, agiscono sul cervello aiutando il neurotrasmettitore 'calmante' per eccellenza, il Gaba. Questo si lega a recettori sui neuroni e letteralmente li calma, riducendo la loro attività. Il Gaba viene aiutato a fare il suo lavoro dai principi attivi delle benzodiazepine.
 Ebbene, in una serie di esperimenti sui topi, gli esperti hanno scoperto che la molecola naturale DBI fa esattamente la stessa cosa ed è per di più attiva in una regione chiave in cui hanno origine gli attacchi epilettici, il talamo. Secondo gli studiosi, questo può essere l'inizio di un nuovo fronte della ricerca che potrebbe portare allo sviluppo di nuovi farmaci antiepilettici e anti-ansia.

domenica 26 maggio 2013

PER ESSERE FELICI BISOGNA AGIRE


Lien Pham, studioso della University of California, ritiene che per raggiungere la felicità non sia sufficiente sognarla. Per dimostrarlo ha chiesto a un gruppo di studenti di immaginare per qualche minuto di aver preso voti molto alti ad un esame. Ma alla fine del test i ragazzi hanno studiato molto meno e ottenuto voti bassi. E' arrivato a una conclusione simile ancheGabriele Oettingen della New York University che ha chiesto invece ai suoi alunni di prendere appunti su un sogno ricorrente: quello di trovare un ottimo lavoro una volta laureati. Qui i ricercatori hanno scoperto che i ragazzi più inclini a immaginare una vita lavorativa 'perfetta', finiscono con più facilità nel gruppo di persone disoccupate o con salario basso. Sembra quasi che immaginare la perfezione e sognare a occhi aperti, tolga energie nel raggiungimento dei propri obiettivi. 

Gran parte dei teorici della felicità spiegano quanto sia importante cambiare vita. Spiegano che chi è  scontento e insoddisfatto, deve cercare novità. Non bisogna credere che a decidere sia solo il destino e arrendersi. Molti esperti sono convinti che tutto si basi sulle emozioni e sulla forza di volontà. Uno dei primi a dare vita a questa teoria fu, a fine ‘800, lo scienziato William James, fratello dello scrittore Henry James. Fu lui uno dei primi ricercatori a stabilire che il comportamento influisce su determinate emozioni, spiegando che, ad esempio, sorridere in modo forzato porta a spensieratezza e felicità. La tesi fu ripresa molto dopo, negli anni ’70 dallo psicologo James Laird che fece ulteriori test per dimostrare come  sia più facile avere sentimenti positivi se ci si esercita a sorridere e a ridere in modo forzato. Insomma più che nel pensiero la formula magica si nasconde nell’azione, in questo caso quella di muovere i muscoli del viso fino a sorridere.

Poggia sul rapporto fra azione e pensiero anche una ricerca della National University di Singapore. Gli studiosi hanno chiesto a un gruppo di persone di entrare in una pasticceria, ma evitando di mangiare dolci. I partecipanti ai quali era stato chiesto di tenere il pugno chiuso e dunque ad agire, sono riusciti a evitare tentazioni, mentre gli altri si sono fatti catturare dalle leccornie. Un test simile è stato fatto anche da Dana Carney, docente alla Columbia Business School. In questo caso i protagonisti della sperimentazione hanno simulato una normale attività d’ufficio. Nel gruppo c’era chi ha assunto posizioni di potere, con conseguenti atteggiamenti, mentre altri hanno svolto funzioni che non sono associate a un ruolo di dirigenza. Calcolando i livelli di testosterone dei partecipanti, i ricercatori hanno stabilito che chi è al potere  sviluppa fiducia in se stesso e ha una maggiore spinta nel raggiungere un obiettivo importante.

Queste teorie rivelano che non bisogna sognare le cose, ma servono energie per raggiungere risultati positivi. Agire molto e pensare meno. Come diceva Bernard Shaw: "Il segreto di essere infelici è di avere tempo di chiedersi continuamente se si è felici o no". Inutile abbandonarsi al pensiero, bisogna fare tante cose. Sullo stesso filone vanno segnalati anche gli studi della psichiatra di Harvard, Ellen Langer, alla fine degli anni ’70. La studiosa chiese a un gruppo di uomini di cambiare vita, immaginando di essere più giovani di 20 anni e di vivere negli anni ‘50. La Langer dimostrò che dopo pochi giorni i partecipanti si sentivano più forti, completamente sicuri delle proprie azioni e camminavano più in fretta. Il giornale The Guardian conclude che decenni di studi hanno dimostrato che la teoria di William James può essere applicata a molti aspetti della vita quotidiana. Sarebbe una buona ricetta per evitare stress e preoccupazioni, agirebbe inoltre come stimolo per l'innamoramento. Raggiungere concretamente gli obiettivi desiderati è anche un modo per essere fiduciosi, sicuri di se e più felici. La ricetta della felicità sta dunque nell’azione e nel cambiamento. Forse vale la pena di seguire i consigli di esperti e psichiatri. Se non siete contenti di come vanno le cose della vostra vita, fate una piccola rivoluzione. Osate. Ma ricordate che non è tempo di pensare, ma di agire.


MAGGIOR RISCHIO DEPRESSIONE PER CHI NASCE NEI MESI INVERNALI

Secondo uno studio su 870 ragazzi e 653 ragazze con età compresa fra 10 e 17 anni pubblicato su Psychiatry Research dall’Università di Bologna avete un maggior rischio di depressione legato alla fotoperiodicità luminosa particolarmente corta della stagione invernale in cui siete nati. Come scriveva il grande poeta Shelley «Bright reason will mock thee, like the sun from a wintry sky», la luce della ragione si farà gioco di te come il sole da un cielo invernale.
SCIENZA E ASTROLOGIA - L’effetto sulla psiche, verificato attraverso i punteggi riportati al GSS (acronimo di Gobal Seasonality Score, cioè scala di stagionalità globale) sembra mantenersi, soprattutto nelle ragazze, per tutta l’infanzia e l’adolescenza impartendo una spiegazione scientifica a tante indicazioni astrologiche che hanno sempre attribuito a questi segni una spiccata sensibilità agli eventi della vita. Se questo dato sarà confermato, potrebbe portare a una maggiore attenzione verso la malattia dell’anima dei nativi di questi segni zodiacali in termini di prevenzione.
GLI STUDI - Da alcuni anni gli psicologi dell’Università di Bologna, in collaborazione con colleghi di altri atenei italiani e stranieri, stanno studiando la correlazione fra data di nascita e sviluppo di depressione, prima in via retrospettiva negli adulti e adesso anche i maniera prospettica nei giovani. Nel 2007 uno studio analogo pubblicato su Affective Disorders aveva fornito risultati simili su 1709 ragazzi fra 10 e 25 anni. Lo strumento utilizzato per valutare il rischio di depresione legato al segno zodiacale è il cosiddetto SPAQ-CA, acronimo di Seasonal Pattern Assessment Questionnaire for Children and Adolescents, cioè questionario di valutazione dell’influenza stagionale per bambini e adolescenti. E’ derivato dalla sua versione originale (SPAQ) messa a punto per gli adulti dal gruppo dell’Università del Maryland di Baltimora diretto da Norman Rosenthal, padre della depressione stagionale (nota con la sigla SAD) e del suo trattamento tramite light therapy (terapia con bagni di luce). La SPAQ è composta da 6 blocchi, ognuno con varie sottodomande, da un minmo di 2 a un massimo di 10, mentre la SPAQ-CA (CA sta per children e adolescent, cioè bambini e adolescenti) è più semplice con solo 3 blocchi e meno domande:
1) segnare con un cerchietto la x del mese o dei mesi in cui si hanno energie al minimo, si è più irritabili o ci si sente peggio.
2) qualche attività come sonno, umore, peso, attività sociale cambia in base al mese?
3) provi delle variazioni nell’arco delle stagioni? Pensi che ciò sia per te un problema minimo, sopportabile o grave?
I CASI - Chiunque può fare questo test per avere un’indicazione generale sugli aspetti che più contano per questo tipo di valutazione, ma l’interpretazione dei risultati è affidata agli psicologi che, analizzando migliaia di risposte, hanno definito, ancor prima che il recente studio dell’Università di Bologna rintracciasse una correlazione “astrologica” con la depressione, varie personalità stagionali. Ad esempio nel New Hampshire (42 gradi Nord) un’elevata percentuale di persone sta peggio d’inverno rispetto a quelli della Florida (52 gradi nord). Più ci si avvicina all’equatore meno si sopporta l’estate: nella Florida del sud la percentuale è molto alta, verosimilmente per colpa dell’afa e dell’umidità. Le cosiddette personalità invernali, invece, durante l’inverno mangiano e dormono di più, ingrassando di conseguenza, mentre d’estate fanno il contrario e in quei mesi trovano più facile stringere amicizie e stare con gli altri, tutte cose che in inverno non riescono a fare nonostante le numerose occasioni di festa come il Natale.

LE DONNE SOFFRONO DI PIU' A LIVELLO PSICOLOGICO

Una ricerca scientifica recente, coordinata dal professor Daniel Freeman, psicologo clinico dell’Università di Oxford, mostrerebbe una maggiore propensione delle donne a sviluppare disturbi mentali a causa del loro ruolo sociale, indubbia fonte di ansie e stress.
La ricerca si è basata sull’analisi di studi epidemiologici provenienti da Europa, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda. Il team del professor Freeman ha così visto come vi fossero delle sostanziali disparità di genere fra le problematiche mentali analizzate. In particolare le donne apparivano più predisposte a lamentare disturbi di tipo depressivo, attacchi di ansia e di panico, mentre il punto debole degli uomini era più l’abuso delle sostanze stupefacenti.

Ma da dove nasce questa predisposizione femminile alla depressione? È presto detto: il ruolo sociale della donna moderna è fonte di ansie e stress che spesso sfociano in disturbi della psiche più o meno gravi. Sotto accusa ci sono le responsabilità di crescere ed educare i figli nel modo migliore, la responsabilità di curare la casa, la disparità retributiva e la difficoltà maggiore di fare carriera rispetto alle controparti maschili.

Inutile dire che tale ricerca si è tirata addosso una serie di critiche e scetticismi anche solo nel Regno Unito, da dove è partita. La professoressa Kathryn Abel, del centro per la salute mentale delle donne alla Manchester University, ha tacciato lo studio come a rischio di “cherry picking”, un termine rubato al marketing che in questo caso indica la propensione degli studiosi a prendere in considerazione solo i dati più scontati, quelli più “a buon mercato”.
La lamentela della Abel non è infatti priva di fondamento, in quanto la ricerca di Freeman non ha tenuto conto di alcuni fattori importanti, quali l’età dei pazienti e il contesto sociale. Tuttavia, lo studio non ci appare poi così inutile, in quanto mostra una questione importante da non sottovalutare. A livello sociologico e sociale è fuori di dubbio che ci sia stata un’evoluzione del ruolo della donna nella sua quotidianità. Così come sono assodate le ansie citate che appartengono soprattutto alla sfera femminile.

UNA DONNA E' FELICE SE HA UN'AMICA


E’ dunque la certezza di poter contare sull’appoggio di un’amica ciò che rende più serena una donna. Spesso, quando la vita quotidiana si fa difficile, trovare un appoggio in qualcuno di fidato è motivo di sollievo per molte delle donne intervistate a seguito di un sondaggio promosso da NewsLifeMedia, un colosso mediatico australiano.

Il sondaggio, che ha coinvolto 6.253 donne, ha rivelato che è ben l’84 per cento delle intervistate fa affidamento sulla propria rete di amicizie per ottenere un sostegno. Mentre per il 76 per cento anche il cibo è fonte di felicità, sia per quel che riguarda il gustarlo che il cucinarlo.
«La felicità delle donne nasce dall’amore, la sicurezza, il sostegno, lo stare insieme ad amici e familiari e il proprio compagno – ha commentato su News.com.au, Natalie Mactier, CEO di Kidspot (una rivista del gruppo NewsLifeMedia) – L’infelicità, invece, proviene dalle preoccupazioni economiche, la politica, la sventura personale, le relazioni inadeguate e negative».

«Tra le pressioni della quotidianità – continua Mactier – i buoni amici sono incredibilmente importanti per le donne in quanto forniscono serenità in mezzo al caos. Per la maggior parte delle donne, gli amici aiutano a destreggiarsi tra i problemi e rimangono stabili quando si passa attraverso la follia della vita quotidiana».

Un cruccio su tutti è il peso. L’inseguire e mantenere il peso ideale è fonte di stress e malumore per il 72 per cento delle donne.
Nonostante la crisi e la recessione mondiale, le donne sono tuttavia ancora ottimiste: per il 66 per cento la situazione è infatti destinata a migliorare. Nel caso non dovesse essere così, si spera di poter sempre contare su una spalla “amica” su cui piangere. Ma, a quanto pare, le amiche non mancano. 


I FALSI MITI SULLO STRESS

Per comprendere meglio il fenomeno stress, quali influenze ha sulla nostra vita e salute, e quali sono i miti associati, la professoressa di social work al Bryn Mawr College, Dana Becker, ha da poco pubblicato un libro dal titolo “One Nation Under Stress: The Trouble With Stress as an Idea”.
A seguito della pubblicazione ha pubblicato un suo intervento sul Washington Post, su cui tenta di sfatare 5 miti sullo stress.
Vediamoli insieme.

Primo mito: dormire a sufficienza, fare esercizio e una dieta corretta possono ridurre lo stress
Secondo la dottoressa Becker il fatto è che, anche se prendersi cura di noi stessi può aiutare a stare bene, tutto questo non ridurrà necessariamente lo stress se non se ne accerta la vera causa.
E’ dunque importante non trascurare la causa dello stress.

Secondo mito: lo stress rende le persone più vulnerabili alle malattie
Lo abbiamo sentito dire più volte che lo stress può aumentare il rischio di malattie, anche gravi.
Secondo gli psicologi, professori Suzanne Segerstrom e Gregorio Miller, che hanno studiato e analizzato più di 300 studi sullo stress e sul funzionamento del sistema immunitario, invece il sistema immunitario è estremamente flessibile e in grado di gestire anche quantità abbastanza grandi di stress, senza battere colpi.
I due ricercatori hanno dichiarato che lo stress può produrre cambiamenti abbastanza drammatici nel sistema immunitario senza necessariamente portare la gente ad ammalarsi.

Terzo mito: la maggior parte delle persone esposte a eventi traumatici sviluppa lo stress post-traumatico
Ma la maggior parte delle persone che hanno vissuto eventi traumatici non sviluppano un disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Sebbene circa il 60 per cento degli adulti statunitensi dicono che hanno avuto almeno una esperienza traumatica, la prevalenza media di PTSD è compresa tra il 6,8 per cento e il 7,8 per cento.

Quarto mito: gli uomini e le donne rispondono allo stress in modo diverso a causa delle differenze genetiche e ormonali
Infatti si può dire sulle differenze di genere nella risposta allo stress, che le donne e gli uomini si comportano diversamente quando sono sotto stress.
Secondo invece l’epidemiologa Sarah Knox, della West Virginia University, questo non equivale a dire che uomini e donne hanno differenti risposte ormonali. E, secondo John Gray, l’autore di “Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere”, le ricerche condotte per lo più su modello animale, non giustificano una maggiore produzione di ormone ossitocina come antidoto allo stress: le donne che si prendono cura della casa e dei figli, non sarebbero meno stressate grazie all’ossitocina.

Quinto mito: se le donne imparano a gestire meglio lo stress, saranno in grado di risolvere i conflitti tra lavoro e famiglia
Ma il lavoro e la famiglia non sono necessariamente in conflitto, afferma Becker, semmai è il lavoro e le politiche sul lavoro, il lavoro e le limitate possibilità nella cura dei figli, che sono in contrasto.

Se smettiamo di trattare lo stress come il problema da risolvere e lavoriamo invece sui i tipi di cambiamenti sociali e politici che vanno a beneficio di donne, uomini e bambini, allora forse possiamo trovare una soluzione reale per lo stress nelle donne – e non solo, conclude Becker.

L'AMORE MATERNO RENDE PIU' INTELLIGENTI

Una ricerca della Washington University School of Medicine di St. Louis dimostra infatti che i bambini che in età prescolare godono di cure materne particolarmente amorevoli sviluppano del 10 per cento in più l'ippocampo, area del cervello fondamentale nella gestione di apprendimento, memoria e stress.

In altre parole, chi fino ai quattro-cinque anni di vita trascorre molto tempo in compagnia della madre e viene da lei coccolato e vezzeggiato, anche "più del dovuto", da quel rapporto trarrà, crescendo, un enorme vantaggio sul piano psico-fisico, ritrovandosi molto più sveglio dei coetanei.

Una teoria - detta "dell'attaccamento primario", già elaborata dallo psicanalista britannico John Bowlby - che studia le componenti etologiche del comportamento umano e aveva concluso che il neonato è un mammifero e che, come tutti i mammiferi, nel primo anno di vita deve continuare ad essere trattato come se si trovasse ancora nel grembo materno, con un continuo e forte contatto epidermico con la madre.


Quella pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences è però la prima ricerca che lega gli accudimenti materni allo sviluppo strutturale di una regione chiave del cervello, in questo caso l'ippocampo. "Il nostro lavoro - spiega il coordinatore del progetto, Joan Luby - fornisce una prova affidabile dell'importanza di coltivare in anticipo lo sviluppo cerebrale e potrebbe avere enormi implicazioni per la salute pubblica''.

Per giungere a queste conclusioni, Luby e il suo team hanno condotto un esperimento costringendo bambini dai 3 ai 6 anni ad affrontare una situazione frustrante: lasciati in una stanza con un pacchetto dai colori molto vivaci, avrebbero potuto aprire il regalo solo dopo che la mamma avesse portato a termine una serie di disegni. Osservando come madre e figlio gestivano la situazione, pensata proprio per replicare i fattori di stress tipici della quotidianità (in cui una mamma non può assecondare in ogni momento le richieste del figlio), gli studiosi hanno classificato sotto la categoria "accudimento" i casi in cui le madri offrivano rassicurazione e supporto al bambino, e diversamente quelli in cui lo ignoravano o rimproveravano.

Tempo dopo, quando i bambini avevano compiuto dai 7 ai 10 anni, i ricercatori hanno effettuato scansioni con risonanza magnetica al cervello di 92 di loro, riscontrando, in quelli con mamme più amorevoli, un ippocampo più grande del 10 per cento rispetto a quelli rientrati nell'altra categoria.


Nello studio, i ricercatori hanno escluso i bambini che soffrivano di depressione o altri disturbi psichiatrici in grado di influenzare la dimensione dell'ippocampo. "Decenni di ricerche avevano suggerito l'importanza di un caregiver particolarmente amorevole (che si tratti di mamma, papà o nonni) ai fini dello sviluppo emotivo e comportamentale del bambino - ha concluso Luby - ma questo studio fornisce prove concrete circa il fatto che una regione chiave del cervello cresca più sana e meglio sviluppata nei bambini che ricevono un accudimento più attento".

giovedì 23 maggio 2013

LA MUSICA ALLEGRA MIGLIORA L'UMORE

Ascoltare musica allegra migliora lo stato d'animo. A dare una conferma a quello che forse già in molti sapevano, sono due studi dell'Università del Missouri pubblicati sulla rivista Journal of Positive Psychology.

Durante il primo studio, un gruppo di volontari è stato invitato a cercare di migliorare il proprio stato d'animo - con istruzioni su come tentare di farlo - ma riuscivano nel loro intento solo quando ascoltavano un brano del compositore Aaron Copland, in contrapposizione al più cupo Stravinsky.

Era comunque importante fare tentativi di cambiare il proprio umore, perchè altri partecipanti, che avevano semplicemente ascoltato la musica, non riportavano nessun cambiamento. Nel secondo studio, i volontari riferivano livelli più elevati di felicità dopo due settimane di sessioni di laboratorio nelle quali ascoltavano musica positiva durante il tentativo di sentirsi più felici, rispetto al gruppo di controllo che aveva solo ascoltato la musica.

Ma come cercare di 'sentirsi' felici? Ad esempio, evitando di fare troppa introspezione e di chiedersi continuamente "Sono ancora felice?", suggeriscono i ricercatori.

Oppure, "piuttosto che concentrarsi su quanta felicità si è guadagnata finora, le persone potrebbero concentrarsi sul godimento che traggono dal cammino verso la felicità, evitando di pensare troppo alla 'destinazione' di questo percorso", ha spiegato Yuna Ferguson, fra gli autori dello studio.

mercoledì 22 maggio 2013

I SINTOMI DELLA DIPENDENZA DA SESSO

Fantasie, impulsi e comportamenti sessuali intensi e ricorrenti per un periodo di almeno sei mesi. Una sessualità incontrollabile che interferisce con la vita normale di una persona over 18 e porta anche all’autolesionismo: il disordine può prendere le forme della dipendenza da masturbazione e pornografia, ma anche del sesso telefonico o virtuale, o la frequentazione serrata di club per soli adulti.
Queste le linee che tracciano il profilo del “disordine ipersessuale”, il disturbo comunemente chiamato “dipendenza dal sesso”, che dovrebbe essere incluso a maggio nella versione aggiornata del manuale di diagnostica Diagnostic and Statistical Manual (DSM), volume a disposizione degli specialisti statunitensi della salute mentale.
Il condizionale è stato finora d’obbligo perché servono studi che attestino la diagnosi del disturbo: i suoi confini sono vaghi e in assenza di diagnosi certe l’American Psychiatric Association si è fatta scrupoli a inserirlo nell’indice accanto a schizofrenia e depressione. Secondo Atlantic l’alone di incertezze verrà spazzato via da uno studio pubblicato sul Journal of Sexual Medicine.
La ricerca dell’UCLA è basata su 150 pazienti (per la maggior parte uomini bianchi americani) che si sono rivolti al dottore perché i loro comportamenti sessuali non avevano freni, e 50 persone in terapia per generali disturbi psichiatrici o abuso di sostanze. Sostanzialmente i ricercatori hanno cercato di capire se le persone che avevano bisogno d’aiuto per problemi sessuali rientravano nella definizione proposta per il manuale, e allo stesso tempo dovevano assicurarsi che il disordine ipersessuale non fosse diagnosticabile anche a pazienti con altri problemi. Nel 90% dei casi chi aveva problemi a controllarsi in materia sessuale ha coperto bene la definizione, e di converso il 93% di chi aveva altri disturbi non rientrava sotto il cappello della diagnosi.

I criteri dunque si sono sono provati funzionali nel distinguere pazienti con comportamenti ipersessuali da quelli che non li hanno. Il sesso non diventa per queste persone solo un modo di scappare allo stress o ad altri problemi, ma prende il controllo su tutti gli altri aspetti della vita, senza lasciare possibilità di cambiamento e ritorno alla quotidianità precedente. L’altra importante conclusione dello studio è proprio che il disturbo del sesso rispetto agli altri problemi porta con sé delle maggiori conseguenze sulla vita della persona, che in molti casi perde il partner, il lavoro e diventa vulnerabile alla depressione. Un’escalation che i medici sperano di fermare per tempo con questa diagnosi.

UN RIMEDIO NATURALE CONTRO L'ANSIA

Una ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Psychopharmacology ha confermato l’efficacia di un rimedio fitoterapico contro l’ansia.

Chi fino ad oggi non voleva affidarsi alla chimica per combattere gli stati d’ansia si affidava alla più blanda valeriana, prodotto naturale ma senz’altro più light rispetto alle cure farmacologiche con prodotti di sintesi.

Adesso invece una studio dell’università di Melbourne ha confermato come un altro rimedio fitoterapico possa combattere ansia e stress senza ricorrere a psicofarmaci. Alla guida dello studio Jerome Sarris, esperto di psichiatria dell’Università australiana e coautore della ricerca pubblicata.

Meno nota della valeriana, questa pianta officinale, la kava, è comune in alcune aree del sud del pacifico.

I ricercatori hanno sottoposto 75 pazienti con disturbi ansiosi all’assunzione di pastiglie di kava. Ad alcuni dei 75 invece è stato somministrato un placebo. Il gruppo è poi stato monitorato per 8 settimane.

Il gruppo di studio ha assunto due compresse al giorno a base di estratto acquoso di kava per un totale di 120 mg. Dopo 3 settimane la dose è stata raddoppiata nei casi in cui si è verificata assenza di beneficio.

A seguito dell’indagine è emerso che la kava ha realmente avuto effetto in chi soffre di disturbi di moderata fino a grave entità e la remissione è avvenuta nel 26% dei casi. Percentuale inferiore nei pazienti trattati con placebo, che non ha superato il 6% di casi di remissione.

Altro vantaggio della kava è la mancanza di effetti collaterali.

In precedenza infatti la pianta era stata accusata di provocare disturbi epatici, accuse rivelatesi infondate all’indomani della conclusione di questo nuovo studio. Nessun problema al fegato, tantomeno effetti dovuti a crisi di astinenza in caso di cessazione dell’assunzione.

Unico intralcio invece alcune varianti genetiche che potrebbero influenzare la risposta nell’assunzione della pianta contro gli stati d’ansia.

Sarris ha commentato: “    In questo studio siamo stati in grado di dimostrare che la Kava offre una potenziale alternativa naturale per il trattamento dell’ansia cronica clinica. Rispetto ad altre opzioni da’ meno rischi di dipendenza e ha un minor potenziale per effetti collaterali”.


Sembra inoltre che gli studi abbiano anche evidenziato un effetto positivo sulla libido femminile, riconducibile verosimilmente alla diminuzione dell’ansia.

LA PSICOTERAPIA FUNZIONA

Una serie di indagini internazionali lo conferma: non ci sono solo le remissioni spontanee e i farmaci.

E' utile ricorrere allo psicoterapeuta o allo psicoanalista? Oppure è preferibile, quando si è ansiosi, insicuri, depressi o preda di un'ossessione rivolgersi ai farmaci? Siamo certi che le psicoterapie curino oppure la remissione, quando c'è, è legata al passare del tempo e quindi è spontanea? E ancora: come orientarsi nella grande varietà di scuole e di approcci terapeutici presenti sul mercato? Esistono metodi più efficaci di altri?
Metodo di indagine
  A queste domande risponde un interessante articolo pubblicato su «Psicologia Contemporanea», la rivista «storica» degli psicologi italiani. L'autore, Mauro Fornaro, spiega come a partire dalla fine degli Anni Sessanta siano nate - anche sotto la spinta dalle compagnie assicurative e dai servizi sanitari nazionali che nelle psicoterapie investono il loro denaro - delle associazioni internazionali, con sezioni in vari Paesi occidentali, tra i quali anche l'Italia. Compito istituzionale di queste associazioni è quello di occuparsi della ricerca in psicoterapia, promuovendo studi in grado di seguire l'iter terapeutico dall'inizio alla fine.
 Il metodo di indagine utilizzato in questo genere di studi è tanto complesso quanto rigoroso ed ora possiamo disporre di risposte piuttosto interessanti e anche un po' sorprendenti. Un primo risultato, unanime, è che le psicoterapie vantano una percentuale di sicuri successi al di sopra delle remissioni spontanee. Per ogni patologia considerata, infatti, gli effetti sono decisamente superiori ai gruppi di controllo, o almeno pari o superiori alle cure con psicofarmaci, di cui comunque rendono più duraturi gli effetti. Il 60-80% dei casi trattati presentano importanti miglioramenti.
Se si utilizza poi la risonanza magnetica e altre tecniche di esplorazione del cervello, si trova una concomitanza tra successo della psicoterapia e rilevanti variazioni nel funzionamento delle aree cerebrali interessate. Inutile dire che questo risultato fornisce una sostanziale boccata d'ossigeno a tutti coloro che si dedicano alla psicoterapia, la cui efficacia era stata messa in dubbio dalle ricerche pionieristiche condotte negli Anni Cinquanta dallo psicologo Hans Eysenck.
Risultato intrigante
Il secondo risultato è invece più intrigante e sorprendente. Confrontando i risultati provenienti da ricerche eseguite su percorsi terapeutici condotti con approcci e tecniche differenti (psicodinamico-psicoanalitico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale, sistemico-relazionale ecc.), è emerso che non c'è evidenza che un tipo di approccio sia superiore ad un altro. Su questo punto secondo i ricercatori varrebbe il verdetto di Dodo (un personaggio di Alice nel paese delle meraviglie): «Tutti hanno vinto e ciascuno merita un premio».
Ma se le tecniche di scuola non sono determinanti ai fini del successo terapeutico, quali sono allora i fattori che maggiormente contribuiscono al successo terapeutico? Più che i fattori specifici, ossia il metodo e le tecniche di trattamento, che inciderebbero per non più dell'8%, l'effetto curativo dipenderebbe in gran parte dai fattori aspecifici. Tali fattori consistono principalmente nella persona del terapeuta: la sua esperienza, il tuo talento, le sue doti umane di ascolto e di disponibilità e, inoltre, nella qualità del rapporto che si instaura tra lui e il paziente. Un fattore centrale risulterebbe essere la cosiddetta «alleanza terapeutica», ossia un mix fatto di fiducia del paziente nei confronti del terapeuta, disponibilità empatica di quest'ultimo e, soprattutto, la sensazione e l'impegno, da parte di entrambi, di lavorare insieme per un obiettivo comune.
Legame profondo

Pur non trattandosi di amicizia, quello che unisce il paziente al terapeuta è un legame profondo che consente al paziente di esprimersi liberamente senza sentirsi giudicato oppure criticato. Questi sente di essere coinvolto in una relazione stabile, sicura, onesta, non coercitiva e «nutriente», al cui interno può esprimersi spontaneamente senza doverne subire le conseguenze. In questo clima egli incomincia a porsi domande su ciò che non sa ancora di se stesso, il che alimenta il suo interesse e il suo impegno e lo porta ad iniziare a pensare in modo diverso, uscendo dagli schemi abituali.

(Tratto da La stampa -Rubriche-Scienze)


lunedì 20 maggio 2013

UN'ASPIRINA PER IL DISTURBO MENTALE ?


Tanti, troppi casi di follia che ci preoccupano. Un disturbo mentale che si aggiunge ai tanti, troppi altri che esistono già … colpa della crisi, di traumi o incidenti, o solo di un “difetto di nascita” che rende la vita di molte persone una non vita. Eppure oggi, uno studio che viene dall’Australia (Università di Melbourne) sta per cambiare la visione delle cose.
Il dottor Brian Dean ha infatti scoperto come aggiungendo l’aspirina o un normale antinfiammatorio alle cure tradizionali, gli effetti sul disturbo mentale sono impressionanti, con casi in cui la malattia mentale è del tutto sparita! Esistono dati che attestano la “guarigione” di malati mentali ai quali è stata aggiunta l’aspirina alla normale terapia. Naturalmente non si tratta di una cura universale e quel che finora sappiamo è soltanto che ha potere di far regredire di molto problemi come depressione, disturbo bipolare e schizofrenia.
Molto spesso, rivela il dottor Dean, i malati mentali presentano forti stati infiammatori al sangue e al cervello. Infiammazioni, dunque, esattamente come il raffreddore. Allora perchè sforzarsi di trovare soluzioni nuove o complicate quando l’unica soluzione l’abbiamo sempre avuta sotto gli occhi? L’aspirina è un antinfiammatorio, la sua azione sulle infiammazioni tipiche del malato mentale spegne i focolai che in casi estremi portano alla follia totale.